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Accessi vascolari

CVC in silicone lesionato da stent metallico

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Una complicanza dopo l'altra

Paziente maschio, affetto da insufficienza renale terminale con diagnosi istologica di glomerulonefrite sclerosante in porpora di Schoenlein Henoch. Come comorbidità diabete mellito, adenocarcinoma prostatico in terapia ormonale e cardiopatia ischemica con pregresso IMA.

Seppur noto all'ambulatorio nefrologico, un deterioramento inaspettato della funzione renale motivava l'inizio della terapia dialitica in urgenza tramite catetere venoso centrale posizionato in vena giugulare interna destra.

Per la povertà del patrimonio venoso superficiale, come primo accesso veniva posizionata una protesi biologica a loop omero-omerale al braccio di sinistra che trombizzava precocemente.

Si procedeva pertanto al confezionamento di una FAV prossimale su vasi nativi (omero mediana) al braccio di destra.

Per 5 mesi il paziente ha mantenuto in sede un catetere venoso centrale giugulare destro.

Si verificava in seguito un edema del braccio destro causato da un ridotto scarico venoso per cui veniva posizionato uno stent metallico esteso dalla vena succlavia al tronco anonimo di destra.

Seguiva la trombosi di tutto il tratto interessato dallo stent con estensione anche alla vena giugulare interna di destra. Il deflusso venoso del braccio veniva garantito da robuste collaterali omo e controlaterali e la FAV è rimata pervia ed utilizzabile per altri 4 anni, fino alla sua perdita per trombosi venosa a pochi centimetri dall'anastomosi.

Si tentava allora il posizionamento di un sistema di Tesio con accesso dalla  vena giugulare sinistra ma risultava possibile il posizionamento di una sola branca con la quale si proseguì il programma emodialitico con tecnica monoago.

La sorpresa

Il catetere in silicone restava in sede per soli due mesi, fino a quando si è verificata spontaneamente  l'estrusione dell'oliva sottocuanea di ancoraggio.

Alla luce delle difficoltà riscontrate due mesi prima nel posizionamento di quel catetere venoso, si decideva di effettuare una sostituzione su filo guida, non essendo il CVC ancora completamente estruso.

Con grande sorpresa alla rimozione del CVC abbiamo notato una sua lesione che a ben vedere si colloca proprio in corrispondenza di una curvatura, nella zona dove lo stent metallico si affaccia in vena cava superiore e dove radiologicamente le due strutture sembrano venire in contatto (Figura 1).

Sul catetere è evidente una zona di abrasione con solchi affiancati in modo estremamente regolare.

Conclusioni

La zona di lesione del CVC  e la regolarità delle graffiature indicano con ogni probabilità che a ledere il CVC sia stato proprio lo stent.

Ovviamente c'è la possibilità che questa lesione sia avvenuta nel momento del posizionamento o della rimozione del CVC ma riteniamo più probabile che invece vi sia stato un processo di lenta abrasione dovuta al reciproco movimento delle strutture.

Di sicuro il nostro riscontro riveste interesse in quanto non ci risulta vi siano segnalazioni simili in letteratura.

Una volta di più questo caso ci rammenta quali sono le complicanze nel lungo termine del catetere  venoso centrale per dialisi.

Se questo paziente avesse iniziato la dialisi con un una FAV (possibilmente su vasi nativi) questa storia non sarebbe stata scritta.

Oggigiorno si discute ampiamente sulle interazioni farmacologiche, il caso da noi presentato rappresenta un caso di "interazione tecnologica" fra due device di cui la medicina moderna fa sempre maggior uso.

Forse bisogna inizare a rifletterci...

release  1
pubblicata il  21 settembre 2015 
da Giordano Pastori, Bruno Dengo
(U.O.C. Nefrologia e Dialisi - Belluno, U.O.C. Anestesia e rianimazione - Castelfranco Veneto)
Parole chiave: accesso vascolare, catetere venoso centrale
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